La tela di Domenico Manetti a Torrita di
Siena:
un apologo sulla parola divina
È trascorso un mese dalla collocazione
della grande tela barocca di Domenico Manetti, raffigurante la Madonna col
Bambino e i SS. Giovanni Battista, Stefano, Bartolomeo e Gerolamo, nella chiesa
delle SS. Flora e Lucilla, sempre più splendida galleria d’arte sacra, dopo il
restauro finanziato dal Club Torrita Ricordi e condotto da Luca Bellaccini.
Nella circostanza il professor Marco Ciampolini, autore di un monumentale e
prezioso studio sulla pittura senese del Seicento, definì l’opera fra i
migliori prodotti di un figlio d’arte (il padre di Domenico fu il più celebre
Rutilio Manetti) che non sempre brillò per inventiva e qualità. In effetti, il
dipinto presenta un’armonia compositiva di raro equilibrio fra visione,
tensione estatica e fisicità, quest’ultima resa con senso della materia sia
negli incarnati che nelle splendide stoffe, fra le quali spicca la dalmatica di
S. Stefano, sulla sinistra, sotto la quale spunta una bianca sottoveste di lino
corrugata da pieghe di virtuosistica esecuzione. Nuvole soffici come bambagia
sorreggono la corporeità plastica ma priva di peso dei personaggi.
Il tema è assai comune: la
Vergine appare fra piccoli angeli festanti, offrendo il figlio all’adorazione di
uno o più testimoni della fede. A ben guardare, però, il quartetto di santi è
insolitamente assortito e, benché sia impossibile al momento stabilire se la
scelta dei personaggi sia stata dettata da un committente particolarmente
esperto di dottrina oppure ispirata da riferimenti più personali, merita
attenzione perché l’opera sembra incentrata sul tema della Parola.
In ordine generazionale, primo
viene quello che gli ortodossi chiamano Pròdromos,
il Precursore: il Battista, cugino del Cristo. La sua attività di predicatore e
nunzio della venuta del Messia simboleggia la parola proclamata, cioè portata
innanzi agli uomini e proferita per conto di Dio, della cui verità l’ultimo
profeta fu mediatore. La sua parola è frutto dell’ispirazione divina, che è
infusione prorompente di sapienza e necessita di un tono alto.
Secondo è l’apostolo Natanaele, detto
Bartolomeo. Egli può essere considerato icona della parola che dubita, ascolta,
crede e tace. Le sole parole attribuitegli durante l’esperienza con Gesù sono
riportate nel Vangelo di Giovanni (1,
45-51): il dubbio sul fatto che da Nazareth possa “venire qualcosa di buono” ne
evidenzia l’ironia, ma il sentirsi riconosciuto dal Cristo come israelita che
non porta falsità nell’anima – perché chi ha il coraggio di non tenere i dubbi
nel cuore e di esprimerli non pratica un doppio pensiero – gli infonde la
subitanea grazia della fede. Da quel momento piomba in un silenzio che
s’interrompe solo dopo la diàspora degli apostoli, con un’intensa opera di
predicazione che – secondo leggende di discussa attendibilità – ne causò la morte
(fu scorticato vivo). Parola taciuta, dunque, nel suo formarsi sotto la guida
di Gesù; e poi portata con coraggio e senza falsità fra i pagani. Parola che
annuncia, quella del Battista; parola che conferma, quella di Bartolomeo. Ed è
parola che nasce dalla dottrina, quindi richiama la necessità del silenzioso
apprendimento.
Stefano, il protomartire le cui
vicende sono narrate negli Atti degli
Apostoli (6 e 7), è simbolo della parola letta e meditata: egli è un ebreo
di nome e cultura ellenistici, un giovane intellettuale convertito al Cristo
(non a caso è rappresentato con gli abiti da diàcono e spesso con un libro,
come nella tela del Manetti) che propaga la verità del suo messaggio radicando
la parola nella pagina scritta: essa richiama la necessità di una certezza
oggettiva, perché la testimonianza sia più forte della stessa vita.
Di Gerolamo, Padre e Dottore
della Chiesa, figura di capitale importanza per la cultura cristiana e
occidentale, vissuto nel IV secolo, è ovviamente il ruolo di intellettuale di
primaria grandezza e di autore di una quantità di opere a carattere teologico,
dottrinario, storico, oltre che traduttore e interprete poliglotta, a
qualificarne la presenza come simbolo della parola scritta, mossa dallo studio
e dalla meditazione per dare forma e struttura comprensibili alla fuggevolezza
del pensiero e della conoscenza.
Tutto questo davanti a una
Vergine inquieta e malinconica, che trattiene il Bambino mentre – secondo uno
schema consueto – quest’ultimo si accinge a prendere con sé la croce astile di
canne palustri che il Battista gli porge, simbolo della passione e morte del
Messia. Muti, a labbra serrate e sguardi pensosi la madre e il figlio – cosa
abbastanza normale, non fosse per quegli angeli e cherubini che volano attorno
alla coppia e, diversamente da una sterminata quantità di casi più antichi e
contemporanei dell’opera del Manetti, sono pure essi a bocca chiusa. Un
silenzio perfetto per un apologo concettoso ma sintetico su una Parola che non
ha senso sovrastare con canti ed espressioni di giubilo, affinché risuoni, si
ascolti, si legga e si scriva con la dovuta chiarezza.
4 commenti:
Una lettura affascinante ,concettuale del dipinto del Manetti. Il prof. Durando è un tesoro del nostro territorio!!! Teniamocelo di conto!
mi piace
Interpretazione acuta
Un po' d'intelligenza ancora prego, ci dà fiducia e voglia di affrontare il futuro. Se accendo la tv o leggo i quotidiani mi potrei suicidare!!
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