Negli Anni 90 la narrazione con cui si aprì la grande stagione delle privatizzazioni era che serviva a migliorare la governance dei colossi statali, sottraendoli al “ricatto della politica”. È stato un disastro ma oggi, che la governance è cambiata, il governo Meloni riprende quel filo senza neanche inventarsi una scusa. C’è un grande non detto nel piano di privatizzazioni da 20 miliardi che il ministro Giorgetti ha inserito nel Def – Poste, Eni, forse Fs (intanto Mps e Raiway) – e vende in giro per il mondo: i numeri mostrano che non esiste una ragione economica che giustifichi la cessione di quote per ridurre un debito pubblico da 2.800 miliardi. Non esisteva nemmeno 30 anni fa, ma oggi sono gli stessi manager scelti dal Tesoro a sposare soluzioni che a un occhio ingenuo paiono solo ingegneria finanziaria da disperati, ma sono in realtà un regalo ai grandi fondi azionisti. Come può finire lo si vede con Autostrade per l’Italia, dove Blackstone e Macquarie litigano con Cdp per poter strappare più dividendi che all’epoca Benetton. C’è un filo che accomuna tutte queste imprese: un flusso di cassa ingente e costante, trasformarlo in dividendi è solo questione di volontà, come ci ricorda la vicenda Aspi. I fondi comprano quote di minoranza ma comandano. D’altronde Giorgetti ha detto che la cessione della rete Tim al fondo avvoltoio Kkr “ha registrato ampia soddisfazione” al forum di Davos. Poi, come per l’Ilva, toccherà ad altri rimettere il dentifricio nel tubetto
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