Mostra personale di scultura religiosa in San Francesco a
Pienza, estate 2016.
L’opera di
Piero Sbarluzzi ha goduto
dell’attenzione della critica d’arte più autorevole ed ha meritato ampi
riconoscimenti nel corso del tempo,
molto è stato pertanto detto e scritto con ampia risonanza,
considerando l’artista pientino un rappresentante autorevolissimo dell’arte
contemporanea. Premesso questo, desidero oggi sottolineare gli aspetti di
questo ispirato lavoro artistico, che riguardano i profondi legami della sua arte con la Comunità pientina e con
la sua cultura autoctona, che nobilitano e impreziosiscono una vicenda artistica intessuta di complicità e di
scambi con la tradizione dell’Umanesimo giovane pientino, così come con la
cultura popolare valdorciana, di cui l’arte di Piero è da sempre interprete
autorevole. Quello che noi pientini riconosciamo immediatamente nella scultura
di intonazione sia civile che religiosa di Piero, è il suo spiccato senso di
appartenenza e il suo culto identitario, il quale fa sì che ogni cittadino di
questa terra che si pone davanti alle sue opere, riconosca immediatamente nelle
sue figure quel patrimonio di gestualità
inconfondibile che abbiamo imparato nei nostri nonni, mai del tutto
cancellato dall’omologazione culturale e oggi resistente al tempo e alle mode
culturali che passano. Raramente un artista è riuscito come Piero a rinnovarsi
nel tempo, restando fedele a se stesso, alle tradizioni della sua gente,
facendosi cantore di eventi e ad un tempo cultore del patrimonio
identitario valdorciano. Cultura materiale e cultura religiosa, cultura sociale
e civile hanno dato all’arte di Piero una dimensione profetica e visionaria ad
un tempo, pur restando sempre vicina,
non solo simbolicamente, alla sua terra e ai suoi abitanti. Il suo
naturalismo visionario, perdonate l’
ossimoro , si presenta come una forma espressiva originale, frutto di un
intento narrativo del presente, che mai dimentica il passato e lo rende
commovente e vitale. Un’ introduzione
alla epicità di una storia, la nostra,
che si carica sempre più attraverso le sue immagini della forza propria della
mitologia. Sia che Piero ci racconti una
vendemmia o una fiera, o piuttosto scolpisca una Crocefissione o una Maternità, nulla di tutto ciò appare
semplice documentazione, ma finisce per caricarsi di un pathos che problematicamente ci rimanda alla
storia e alla tradizione narrativa della
vicenda valdorciana, dal medioevo all’Umanesimo, dall’età romantica a quella del Novecento. Il
sentimento della convivialità, del dolore collettivo, della nostalgia, del
tempo che passa ineluttabilmente, si traduce nei suoi lavori in quella gestualità parca che abbiamo sempre
riconosciuto ai nostri padri e ai nostri nonni, che abbiamo sentito in noi
stessi come eredità del loro tempo ed abbiamo imparato a riconoscere in questa
arte straordinaria che ci entusiasma e ci commuove ad un tempo. Nelle sue
storie riaffiorano, sotto forma di personaggi popolari anonimi, di santi o di
profeti, o di contadini ,le antiche figure di coloro che fecero la storia di
Pienza e della Valdorcia e come per incanto seguitano a raccontarci una storia
nota, ma che ogni volta si fa poesia e
incanto. Il lessico usato nella sua scultura da Piero Sbarluzzi ricorda
talvolta quello dei tagliapietra delle nostre Pievi, ma anche quello degli scultori delle cattedrali
toscane, dei costruttori di storie sacre
come quella di San Vivaldo o del Pergamo del Duomo senese. Ci hanno raccontato
e ci raccontano come nel nostro caso delle storie sacre possano divenire esse stesse
sacra rappresentazione, mentre per noi che siamo nati e vissuti qui sembrano
anche sottintendere una storia altrettanto
nota. Quei volti cotti dal sole e quelle mani ossute, quelle
donne dai volti così mesti e dolci ad un
tempo ci ricordano tutti i protagonisti anonimi del nostro Novecento; volti e
braccia e corpi affannati che passarono il tempo della guerra, della povertà,
dell’emigrazione e della speranza tornata a risuonare nelle veglie, nelle fiere
e nelle feste. Perché se è vero che l’arte dell’Umanesimo così felicemente
espressa a Pienza nei secoli è stata
capace di ispirare e di far crescere artisti come la Zia Remy, Aleardo
Paolucci, Piero Sbarluzzi ed Emo Formichi, o la dinastia dei forgiatori Biagiotti, donando loro forza espressiva e
capacità narrativa, è pur vero che essa non sarebbe bastata da sola ad animare
la loro forza visionaria e poetica,
senza registrare le vibrazioni, le passioni, la spiritualità incontrate nei
loro giorni. Ed è questo l’aspetto che ha concorso felicemente alla costruzione
di un patrimonio di appartenenza e di
sapere identitario in cui noi
possiamo oggi fortunatamente riconoscerci. Per questa ragione credo, dobbiamo
dire a Piero, come a tutti gli altri che abbiamo conosciuto, un semplice ma importante
‘grazie’ .
Fabio
Pellegrini
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