venerdì 5 agosto 2016

L'opera d'arte come patrimonio identitario della Comunità ( Nota in margine alla Mostra di Piero Sbarluzzi)

Mostra personale di scultura religiosa in San Francesco a Pienza, estate 2016.


L’opera di Piero Sbarluzzi ha goduto  dell’attenzione della critica d’arte più autorevole ed ha meritato ampi riconoscimenti nel corso del tempo,   molto  è stato pertanto  detto e scritto con ampia risonanza, considerando l’artista pientino un rappresentante autorevolissimo dell’arte contemporanea. Premesso questo, desidero oggi sottolineare gli aspetti di questo ispirato lavoro artistico, che riguardano i profondi legami  della sua arte con la Comunità pientina e con la sua cultura autoctona, che nobilitano e impreziosiscono una  vicenda artistica intessuta di complicità e di scambi con la tradizione dell’Umanesimo giovane pientino, così come con la cultura popolare valdorciana, di cui l’arte di Piero è da sempre interprete autorevole. Quello che noi pientini riconosciamo immediatamente nella scultura di intonazione sia civile che religiosa di Piero, è il suo spiccato senso di appartenenza e il suo culto identitario, il quale fa sì che ogni cittadino di questa terra che si pone davanti alle sue opere, riconosca immediatamente nelle sue figure quel patrimonio di gestualità  inconfondibile che abbiamo imparato nei nostri nonni, mai del tutto cancellato dall’omologazione culturale e oggi resistente al tempo e alle mode culturali che passano. Raramente un artista è riuscito come Piero a rinnovarsi nel tempo, restando fedele a se stesso, alle tradizioni della sua gente, facendosi cantore di  eventi  e ad un tempo cultore del patrimonio identitario valdorciano. Cultura materiale e cultura religiosa, cultura sociale e civile hanno dato all’arte di Piero una dimensione profetica e visionaria ad un tempo, pur restando sempre vicina,  non solo simbolicamente, alla sua terra e ai suoi abitanti. Il suo naturalismo  visionario, perdonate l’ ossimoro , si presenta come una forma espressiva originale, frutto di un intento narrativo del presente, che mai dimentica il passato e lo rende commovente e vitale. Un’  introduzione alla  epicità di una storia, la nostra, che si carica sempre più attraverso le sue immagini della forza propria della mitologia. Sia che Piero ci racconti  una vendemmia o  una fiera, o piuttosto  scolpisca una Crocefissione o  una Maternità, nulla di tutto ciò appare semplice documentazione, ma finisce per caricarsi di un  pathos che problematicamente ci rimanda alla storia e alla tradizione  narrativa della vicenda valdorciana, dal medioevo all’Umanesimo, dall’età  romantica a quella del Novecento. Il sentimento della convivialità, del dolore collettivo, della nostalgia, del tempo che passa ineluttabilmente, si traduce nei suoi lavori in  quella gestualità parca che abbiamo sempre riconosciuto ai nostri padri e ai nostri nonni, che abbiamo sentito in noi stessi come eredità del loro tempo ed abbiamo imparato a riconoscere in questa arte straordinaria che ci entusiasma e ci commuove ad un tempo. Nelle sue storie riaffiorano, sotto forma di personaggi popolari anonimi, di santi o di profeti, o di contadini ,le antiche figure di coloro che fecero la storia di Pienza e della Valdorcia e come per incanto seguitano a raccontarci una storia nota, ma che ogni volta si fa  poesia e incanto. Il lessico usato nella sua scultura da Piero Sbarluzzi ricorda talvolta quello dei tagliapietra delle nostre Pievi, ma  anche quello degli scultori delle cattedrali toscane, dei  costruttori di storie sacre come quella di San Vivaldo o del Pergamo del Duomo senese. Ci hanno raccontato e ci raccontano come nel nostro caso delle  storie sacre possano divenire esse stesse sacra rappresentazione, mentre per noi che siamo nati e vissuti qui sembrano anche sottintendere una storia  altrettanto nota. Quei  volti  cotti dal sole e quelle mani ossute, quelle donne  dai volti così mesti e dolci ad un tempo ci ricordano tutti i protagonisti anonimi del nostro Novecento; volti e braccia e corpi affannati che passarono il tempo della guerra, della povertà, dell’emigrazione e della speranza tornata a risuonare nelle veglie, nelle fiere e nelle feste. Perché se è vero che l’arte dell’Umanesimo così felicemente espressa a Pienza nei secoli è  stata capace di ispirare e di far crescere artisti come la Zia Remy, Aleardo Paolucci, Piero Sbarluzzi ed Emo Formichi, o la dinastia dei forgiatori  Biagiotti, donando loro forza espressiva e capacità narrativa, è pur vero che essa non sarebbe bastata da sola ad animare la loro  forza visionaria e poetica, senza registrare le vibrazioni, le passioni, la spiritualità incontrate nei loro giorni. Ed è questo l’aspetto che ha concorso felicemente alla costruzione di un patrimonio di appartenenza e di  sapere identitario  in cui noi possiamo oggi fortunatamente riconoscerci. Per questa ragione credo, dobbiamo dire a Piero, come a tutti gli altri che abbiamo conosciuto, un semplice ma importante ‘grazie’ .

Fabio Pellegrini

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